AMIANTO E RESPONSABILITÀ PENALE NEL SETTORE FERROVIARIO

    A breve distanza dall'emanazione della sentenza n. 43665/19, con la quale, in data 8.10.2019, si rigettava il ricorso della Procura Generale presso la Corte di Appello di Torino avverso la sentenza di assoluzione dei vertici delle società del Gruppo Olivetti di Ivrea e si chiudeva, definitivamente, la vicenda relativa all'esposizione dei relativi lavoratori alla fibra di amianto, la Corte di Cassazione, Sezione IV penale, ritorna sull'argomento con una nuova pronuncia, emanata in data 30.01.2020 di senso diametralmente opposto.

    La brevissima analisi che si offre con il presente scritto mira ad evidenziare le peculiarità del caso sottoposto alla Suprema Corte che hanno reso inevitabile il giudizio di condanna dei due imputati ricorrenti.

   La vicenda vede imputati due fratelli - legali rappresentanti di una società operante nei settori della costruzione e riparazione e bonifica da materiale contenenti amianto di veicoli ferroviari - chiamati a rispondere del decesso per mesotelioma pleurico maligno epitetoide di una lavoratrice esposta alla fibra di amianto aerodispersa durante le operazioni di bonifica.

     Il processo penale giunge alla fase di legittimità in seguito alla condanna degli imputati in entrambi i precedenti gradi di merito.

   Sorvolando sulle questioni di natura procedurale sulle quali si è ampiamente soffermata la Suprema Corte - relative per lo più all'inutilizzabilità delle dichiarazioni rese in fase d'indagine dalla persona offesa che, in ragione delle sue precarie condizioni di salute, avrebbe dovuto essere escussa nelle forme dell'incidente probatorio, mai celebratosi per grave ritardo degli uffici giudiziari - appare doveroso concentrare l'attenzione sulla peculiarità della vicenda sottoposta al vaglio della Corte di legittimità che, contrariamente a quanto accaduto nella pressoché totalità dei casi pregressi, vede due soli imputati chiamati a rispondere delle esposizioni a fibra di amianto determinanti l'insorgenza di una patologia neoplastica letale in danno di una lavoratrice che non ha avuto altre e diverse occasioni di esposizione al di fuori di quella professionale e non aveva abitudini di vita che avessero potuto costituire ipotesi alternativa di insorgenza o di aggravamento della patologia.

    Il motivo di ricorso sul quale gli imputati concentrano le loro doglianze, di interesse nella presente sede, è quello relativo all'asserita assenza di prova del nesso causale tra esposizione ad amianto ed insorgenza della patologia nel caso in esame.

    La difesa, facendo leva sui noti precedenti giurisprudenziali elaborati dalla medesima sezione della Corte di Cassazione - primo fra tutti certamente quello di cui alla sentenza n. 43786/2010 (c.d. sentenza Cozzini) - invoca l'annullamento della sentenza di condanna emanata dalla Corte di Appello di Torino che, in quanto fondata sull'inaccettabile equazione tra presenza di asbesto nell'ambiente lavorativo e insorgenza della patologia tumorale, applicava, in buona sostanza, un criterio di causalità probabilistica in luogo di quella individuale a più riprese pretesa, in passato, dalla Cassazione.

     Si dolgono, inoltre, i ricorrenti, della mancata considerazione, da parte dei giudici di merito, dell'incertezza scientifica che a tutt'oggi domina l'ambito relativo agli effetti acceleratori delle inalazioni di fibra di amianto avvenute in epoca successiva alle prime (ritenute certamente determinanti per l'insorgenza della patologia). 

     A corollario delle ragioni di censura sinteticamente richiamate, si offre una serie di confutazioni del materiale probatorio già valutato in primo e secondo grado che, in quanto tali, non hanno trovato alcun riscontro in sede di legittimità.

    La Corte di Cassazione, prendendo spunto dal concorde orientamento di tutti i consulenti tecnici di parte e del perito nominato dal Tribunale - secondo il quale i mesoteliomi possono insorgere anche in seguito ad esposizioni a dosi bassissime di fibra di amianto - supera la critica introdotta dai ricorrenti in ordine all'inaccettabile equazione tra presenza di amianto e insorgenza della patologia precisando come, nel caso di specie, la lavoratrice avesse prestato la propria attività presso l'impresa rappresentata dai due imputati per tutta la sua vita professionale e che non si fossero accertate altre e diverse cause di origine anche non professionale della patologia.

     In altri termini, la conferma in sede di legittimità della sentenza di condanna matura sulla base del presupposto, oggettivo ed indefettibile, per il quale, stante l'unicità del rapporto di lavoro alle dipendenze dell'impresa - sempre legalmente rappresentata dai due ricorrenti, nelle varie forme societarie assunte nel corso del tempo - non è neppure applicabile, nel caso di specie, la discussa teoria dell'effetto acceleratore della patologia, posto che tutto il periodo di esposizione della lavoratrice è riconducibile sotto il governo dei due imputati.

     Di talchè, il giudizio di responsabilità penale matura non a valle dell'accoglimento delle dibattute teorie sull'effetto che possono generare le dosi successive alle prime sulla patologia neoplastica letale (assolutamente ininfluenti nel caso in esame) quanto piuttosto nella certezza della diagnosi della patologia, nella certezza della presenza di aerodispersione di fibre di amianto in ambiente di lavoro e nella totale assenza di fattori eziologici alternativi rispetto all'insorgenza ed all'aggravamento letale della malattia.

 

 

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Cass. Pen., Sez. IV, 30.01.2020, n. 1215
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